L'impegno politico
Aldo Moro era un cattolico credente e la sua fede in Dio si rispecchiava nella sua vita politica
La sua intenzione dominante era di allargare la base democratica del sistema di governo, vale a dire che il vertice del potere esecutivo avrebbe dovuto rappresentare un numero più ampio di partiti e di elettori. Questo sarebbe stato possibile solo con un gioco di alleanze aventi come fulcro la Dc, seguendo così una linea politica secondo il principio di democrazia consociativa: questa idea di Moro non va confusa con la strategia, enunciata dal segretario del PCI Enrico Berlinguer, del “compromesso storico”, che prevedeva l'entrata al governo del Pci.
Se si analizzano brevemente i compiti di Moro nell'ambito della sua vita politica, risaltano le grandi difficoltà a cui doveva far fronte: soprattutto la necessità di conciliare l'aspirazione cristiana e popolare della democrazia cristiana con i valori di tendenza laica e liberale della società italiana. Il cosiddetto “miracolo economico”, che ha portato l'Italia rurale a diventare in pochi decenni una delle grandi potenze industriali mondiali, comportò anche un cambiamento sociale con il risveglio delle masse nel senso di una presenza attiva nella vita del Paese. Moro, quando affermava che “di crescita si può anche morire”[3], voleva esprimere il reale pericolo di una società in crescita rapidissima: il risveglio delle masse creava la nascita di nuovi e più forti componenti popolari (tra cui i giovani, le donne e i lavoratori) che avevano bisogno di integrazione all'interno del sistema democratico.
Le masse popolari secondo alcuni[4] tendevano a esprimere in forma “emotiva e mitologica” il loro bisogno di una partecipazione diretta alla gestione del potere. Secondo altri, più semplicemente, le masse popolari italiane erano e sono - per ragioni storiche, politico-culturali e di fragilità del ceto intellettuale - propense ad inclinare verso una destra autoritaria: recuperare le classi popolari dal fascismo e traghettarle nel sistema democratico fu una missione che Moro ascrisse alla Democrazia cristiana.
Per questo motivo, Moro si ritrovò nell'ingrata situazione di dover “armonizzare” realtà apparentemente inconciliabili tra loro. Sandro Fontana, nel suo citato articolo Moro e il sistema politico italiano, sostenne che questa strutturazione culturale delle masse da un lato le induceva a cercare “soluzioni di tipo simbolico” che si risolvono spesso in “situazioni drammatiche”. Questo fattore era un fondamentale presupposto per la nascita di gruppi terroristici che, visti sotto quest'ottica, si potevano considerare il frutto dell'estremizzazione di una forma di partecipazione attiva e extraparlamentare alla politica del paese da parte di una piccolissima parte della popolazione; in questo tipo di partecipazione componenti emozionali e mitologiche si mescolano comportando quasi sempre “situazioni drammatiche”.
Dall'altro lato c'era la necessità di far sopravvivere il sistema politico, che a questo scopo aveva bisogno sia di regole precise, sia di scendere continuamente a compromessi alla ricerca di una forma di tolleranza civile. Vale a dire due realtà opposte, agli antipodi tra loro. Sandro Fontana riepiloga con le seguenti domande l'arduo compito di Moro (e della Dc): “Come conciliare l'estrema mobilità delle trasformazioni sociali con la continuità delle strutture rappresentative? Come integrare nello Stato masse sempre più estese di cittadini senza cedere a seduzioni autoritarie? Come crescere senza morire?”
Per forza di cose, la soluzione a tali quesiti non poteva non essere vista nell'ambito di un compromesso politico, una esperienza già in parte collaudata con “l'apertura a sinistra” della Dc nei confronti del Psi di Pietro Nenni, all'inizio degli anni 60[8]. Ma la situazione era diversa: dopo la rivoluzione ungherese del 1956 il Psi si era dichiaratamente staccato dal Pci per intraprendere una strada autonoma. Ciononostante, lo sviluppo di tale coalizione fu bruscamente fermato dal tentativo di colpo di stato del generale De Lorenzo, che per tanti anni era stato alla guida dei servizi segreti.
Negli anni settanta e soprattutto dopo le elezioni del 1976, le quali videro un quasi - sorpasso del Pci sulla Dc, Moro vide l'esigenza di dar vita a governi di "solidarietà nazionale", che avessero una base parlamentare più ampia, comprendente anche il PCI. Questo fatto rese Moro oggetto di aspre critiche, che lo accusavano di volersi rendere artefice di un secondo “compromesso storico”, più clamoroso del primo in quanto prevedeva una collaborazione di governo con il Partito Comunista di Berlinguer, che ancora faceva parte della sfera d'influenza sovietica. Questa soluzione presentava grandi rischi sul piano della politica internazionale in quanto non trovava il consenso delle grandi superpotenze mondiali:
1. Disaccordo degli Usa:
L'ingresso al governo di persone che avevano stretti contatti con il partito comunista sovietico avrebbe consentito loro di venire a conoscenza, in piena guerra fredda, di piani militari e di postazioni strategiche supersegrete della Nato. Inoltre, una partecipazione comunista in un paese d'influenza americana sarebbe stata una sconfitta culturale degli Usa nei confronti del resto del mondo, e soprattutto dell'Urss.
2. Disaccordo dell'Urss:
La partecipazione al governo del Pci sarebbe stata una forma di emancipazione dal governo madre sovietico e di avvicinamento agli Usa.
Inoltre il “compromesso storico” non piaceva a molti settori dello stato italiano, che per mantenere il potere si erano serviti spesso dell'aiuto di associazioni mafiose, logge massoniche (P2) e dei servizi segreti. Le divergenze sul piano internazionale - rispetto al suo disegno politico - Moro le aveva già potute constatare sulla propria pelle nel periodo direttamente antecedente il sequestro: la sua accorata difesa di Rumor nella discussione parlamentare sullo Scandalo Lockheed fu da taluno spiegata con un suo personale coinvolgimento nel sistema di tangenti versate dall'impresa aerospaziale americana Lockheed in cambio dell'acquisto di aerei da trasporto militari C-130. Secondo alcuni giornali (che si disse foraggiati da circoli ostili statunitensi), Moro era il fantomatico Antelope Cobbler, destinatario delle bustarelle. L'accusa, che aveva lo scopo di assassinare Moro politicamente e far naufragare in tal modo i suoi progetti politici, fallì con l'assoluzione di Moro del 3 marzo 1978, tredici giorni prima dell'agguato in via Fani.
No al "Processo in piazza" e "Compromesso storico" [modifica]
Nel 1975, il 28 agosto, Pier Paolo Pasolini lanciò un appello dalle colonne del Corriere della Sera a processare pubblicamente la DC.
Il 10 marzo 1977 Luigi Gui esponente e ex ministro democristiano, venne rinviato all'Alta Corte per lo Scandalo Lockheed: il giorno prima, a chiusura del dibattito dinanzi al Parlamento in seduta comune, Aldo Moro aveva difeso l'operato della Democrazia Cristiana e dei suoi uomini, pronunciando una frase che divenne famosa: "Onorevoli colleghi che ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare"[13]. Questa vicenda si concluderà nel 1979 con l'assoluzione di Gui e la condanna del socialdemocratico Mario Tanassi.
In seguito a questi avvenimenti fu uno dei leader politici che maggiormente prestarono attenzione al progetto del cosiddetto Compromesso storico di Enrico Berlinguer, che nell'anno precedente pubblicamente aveva fatto lo strappo con Mosca, rendendosi quindi accettabile a gran parte degli occhi democristiani. Il segretario nazionale del Partito Comunista Italiano aveva infatti proposto un accordo di solidarietà politica fra i Comunisti, e Cattolici, in un momento di profonda crisi sociale e politica in Italia. La conseguenza fu un intenso confronto parlamentare tra i due schieramenti, che fece parlare di "centralità del Parlamento".
All'inizio del 1978 Moro, allora presidente della Democrazia Cristiana fu l'esponente politico più importante fra coloro che ritennero percorribile una strada per un governo di "solidarietà nazionale", che includesse anche il PCI nella maggioranza, sia pure senza fare entrare direttamente nel Governo, in una prima fase, dei ministri comunisti.
Il sequestro
Per approfondire, vedi le voci Cronaca del sequestro Moro e Caso Moro.
La celebre foto del Presidente Moro sequestrato dalle BRIl 16 marzo 1978, giorno della presentazione del nuovo governo, guidato da Giulio Andreotti, la Fiat 130 che trasportava Moro, dalla sua abitazione nel quartiere Trionfale zona Monte Mario di Roma alla Camera dei Deputati, fu intercettata da un commando delle Brigate Rosse all'incrocio tra via Mario Fani e Via Stresa. In pochi secondi, i terroristi uccisero i 5 uomini della scorta (Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi) e sequestrarono il presidente della Democrazia Cristiana.
Morte e sepoltura
Dopo una prigionia di 55 giorni nel covo di via Montalcini[14], il cadavere di Aldo Moro fu ritrovato il 9 maggio nel baule posteriore di una Renault 4 rossa a Roma, in via Caetani, emblematicamente vicina sia[15] a Piazza del Gesù (dov'era la sede nazionale della Democrazia Cristiana), sia a via delle Botteghe Oscure (dove era la sede nazionale del Partito Comunista Italiano).
Fu papa Paolo VI ad officiare il rito funebre ufficiale per la scomparsa di Aldo Moro, amico di sempre e alleato. Non poche critiche vennero mosse al Pontefice per questo gesto che ha pochissimi eguali nella storia della Chiesa, ma Papa Montini non volle sentire ragioni. La cerimonia funebre venne celebrata senza il corpo dello statista per esplicito volere della famiglia, la quale ritenendo che lo stato italiano poco o nulla avesse fatto per salvare la vita di Moro, rifiutò il funerale pubblico ufficiale di stato, scegliendo di svolgere le esequie in forma privata.
« Le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo simile alla grossa pietra rotolata all'ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi ad esprimere il de profundis, il grido, il pianto, dell'ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce. Signore, ascoltaci, e chi può ascoltare il nostro lamento?... se non ancora tu, o Dio della vita e della morte, tu, non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico… Fa o Dio, Padre di misericordia, che non sia interrotta la comunione che pur nelle tenebre della morte ancora intercede tra i defunti da questa esistenza temporale e noi tutt'ora viventi in questa giornata, di un sole che inesorabilmente tramonta, non è vano il programma del nostro essere di redenti; la nostra carne risorgerà! La nostra vita sarà eterna! Noi, Aldo, e tutti i viventi in Cristo, beati nell'infinito Iddio, li rivedremo. Signore ascoltaci. E intanto, o Signore, fa, che placato dalla virtù della tua croce, il nostro cuore sappia perdonare l'oltraggio ingiusto e mortale inflitto a quest'uomo carissimo e a quelli che han subito la medesima sorte crudele. Signore ascoltaci!!! »
(Omelia di Paolo VI durante la messa in suffragio dell'on. Aldo Moro in San Giovanni in Laterano, 13 maggio 1978)
Le lettere di Aldo Moro
Rinchiuso dalle Brigate Rosse nella "prigione del popolo", Aldo Moro scrisse moltissime lettere, indirizzate perlopiù ai familiari e alla dirigenza della Democrazia Cristiana, più precisamente a Benigno Zaccagnini. Non si sa ancora se le lettere, che degli esami grafologici hanno attribuito come scrittura al politico, siano state pensate da Moro o dettate dalle Brigate Rosse.
Trentotto di queste lettere vennero pubblicate, con una introduzione attribuita a Bettino Craxi, nel pamphlet "Lettere dal Patibolo" dalla rivista Critica Sociale