martedì 9 febbraio 2010

pag.20 ) L'omicidio Calabresi

L'omicidio Calabresi è il nome con cui i mass media sono soliti riferirsi all'assassinio del commissario di polizia e addetto alla squadra politica della questura, Luigi Calabresi, avvenuto il 17 maggio 1972 a Milano dinanzi la sua abitazione per mano d'un commando di due uomini con alcuni colpi di arma da fuoco.
Solo nel 1997 si giunse a una sentenza in Corte di Cassazione che condusse ad arresti e condanne definitive: questa individuò Ovidio Bompressi e Leonardo Marino come esecutori materiali del delitto e Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri come mandanti. I quattro appartenevano all'epoca dell'omicidio alla formazione extraparlamentare Lotta Continua, della quale Sofri e Pietrostefani erano stati fondatori.

Francobollo commemorativo emesso da Poste italiane

Il contesto storico
Il delitto fu consumato nel periodo detto degli "Opposti Estremismi" o degli "anni di piombo" immediatamente successivo alla "Contestazione".
Il commissario Luigi Calabresi era addetto alla squadra politica della questura di Milano, in tale veste veniva spesso incaricato di seguire le manifestazioni, frequenti a quel tempo a Milano.
Il 19 novembre 1969 era stato ucciso durante una manifestazione a Milano l'agente Antonio Annarumma. Il fatto aveva avuto una eco straordinaria. Ai funerali era presente per le sue funzioni istituzionali il commissario Calabresi, che in tale occasione era intervenuto a favore di Mario Capanna. Le indagini non permisero di individuare i colpevoli ed il caso rimase insoluto, uno dei misteri d'Italia.
Il 12 dicembre 1969 aveva avuto luogo la strage di piazza Fontana: una bomba posta nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura di quella piazza del centro di Milano aveva provocato la morte di diciassette persone e il ferimento di ottantotto.
Le indagini su Piazza Fontana
Per approfondire, vedi le voci Antonio Annarumma, Strage di piazza Fontana, Giuseppe Pinelli e Gerardo D'Ambrosio
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Le indagini sull'attentato terroristico vennero orientate inizialmente nei confronti di tutti i gruppi in cui potevano esserci estremisti; furono fermate per accertamenti circa 80 persone, in particolare tre anarchici del circolo "Ponte della Ghisolfa".
Il giorno della strage vi fu tra i fermati un esponente dei movimenti anarchici milanesi, il ferroviere Giuseppe Pinelli. Questi fu convocato in questura per accertamenti ove fu interrogato in modo estenuante per verificarne l'alibi, che all'inizio appariva impreciso. Il 15 dicembre egli precipitò dalla finestra dell'ufficio del commissario Calabresi, uno tra gli incaricati delle indagini sul caso di Piazza Fontana, morendo sul selciato; Pinelli era stato trattenuto per ben tre giorni consecutivi, in evidente violazione dei limiti allora previsti dalla legge.
Su questo evento si innesca la dura polemica sulle responsabilità dell'azione investigativa e sulle responsabilità materiali degli inquirenti, incluso il sospetto di un loro intervento fisico diretto come causa della caduta di Pinelli ed il sospetto che il commissario Calabresi ed il questore Guida fossero presenti nella stanza dalla cui finestra cadde l'anarchico. Luigi Calabresi dichiarò di non essere stato presente nella stanza ove avveniva l'interrogatorio di Pinelli al momento della sua caduta, in quanto chiamato a rapporto dal suo superiore. Altri cinque addetti alle forze dell'ordine, tra cui un tenente dei carabinieri e 4 addetti alla polizia, procedevano all'interrogatorio ed erano presenti nella stanza al momento della caduta; essi confermarono la loro presenza e l'assenza del commissario[2].

L'inchiesta sulla morte di Pinelli fu condotta dal magistrato Gerardo D'Ambrosio. Nell'ottobre del 1975 venne emessa la sentenza sulla morte di Giuseppe Pinelli risultante dall'inchiesta.
In essa D'Ambrosio escluse sia l'ipotesi del suicidio - emersa nei primi tempi dalle testimonianze dei poliziotti, ma che si rivelò infondata quando si verificò la solidità dell'alibi di Pinelli - sia quella dell'omicidio. La sentenza definì la morte come accidentale, a causa di un malore che provocò uno slancio attivo e «l'improvvisa alterazione del centro di equilibrio» .

Sempre nel dispositivo di sentenza, d'Ambrosio scrisse che "L'istruttoria lascia tranquillamente ritenere che il commissario Calabresi non era nel suo ufficio al momento della morte di Pinelli", nonostante l'anarchico Pasquale Valitutti nella sua testimonianza avesse affermato di non averlo visto uscire.
Il fatto che la sentenza escludesse la responsabilità delle forze dell'ordine suscitò reazioni polemiche di vario tono, principalmente nel mondo sociale, politico e culturale facente capo alla sinistra.

Reazioni nella sinistra politica, anche extraparlamentare

Varie voci dalla sinistra politica presero a bersaglio il commissario Luigi Calabresi che era noto, per compiti di ufficio, per essere spesso inviato a sorvegliare le manifestazioni dell'estrema sinistra.
Campagna mediatica contro il commissario Calabresi
Per approfondire, vedi le voci Lotta Continua e Lotta Continua (giornale).

In particolare il movimento extraparlamentare Lotta Continua si distinse per una campagna di stampa attraverso il proprio giornale contro Luigi Calabresi dai toni assai violenti, identificandolo come maggior responsabile della morte di Giuseppe Pinelli.
« Questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole, ormai, ed è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito [...] Qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi per falso in atto pubblico. Noi, che più modestamente di questi nemici del popolo vogliamo la morte... »
(Lotta Continua del 6 giugno 1970)

A questa campagna accusatoria si unì la giornalista Camilla Cederna che oltre ad articoli sulla rivista Espresso scrisse il libro Pinelli: una finestra sulla strage, nel quale sottolineava le responsabilità del commissario nel suicidio dell'anarchico. A causa di questi giudizi il questore di Milano, all'indomani dell'assassinio, la additò come «mandante morale» dell'omicidio Calabresi.
Ne seguirono querele che portarono alla condanna di alcuni esponenti di Lotta Continua ma che contribuirono anch'esse ad acuire tensioni e contrasti, dando luogo a nuove, accese discussioni sull'operato del commissario Calabresi[6][7].

L'appello pubblicato su "L'espresso"

Per approfondire, vedi la voce Appello de L'espresso contro il commissario Calabresi. Il settimanale L'espresso, in tre successivi numeri apparsi in edicola a partire dal 13 giugno 1971, pubblicò un appello in cui si sosteneva che Calabresi era responsabile della morte di Giuseppe Pinelli e in cui si chiedeva inoltre di ricusare i «commissari torturatori, i magistrati persecutori, i giudici indegni»
L'appello fu sottoscritto da numerose persone di primissimo piano.

Le minacce a Calabresi sui muri e per lettera
Le minacce e le intimidazioni isolarono il commissario.
In questo clima di tensione il commissario subì forti intimidazioni e minacce via lettera e con scritte sui muri; si rese conto di essere pedinato e lo annotò[10], tuttavia nessuna scorta gli venne mai assegnata.
Quando gli fu consigliato di portare con sé la sua Beretta 6,35 - come era abitudine degli agenti di polizia - rispose che se avessero deciso di ucciderlo gli avrebbero sparato alle spalle ed in tal caso la pistola non gli sarebbe servita.
Calabresi, nella campagna di calunnie e isolamento, trovò conforto nella fede, tanto da dichiarare: Se non fossi cristiano, se non credessi in Dio, non so come potrei resistere....

L'omicidio di Luigi Calabresi
Il 17 maggio 1972, alle ore 9:15, Luigi Calabresi fu assassinato davanti alla sua abitazione in Largo Cherubini, a Milano, da un commando di due uomini, che gli spararono alle spalle un colpo alla testa e uno alla schiena, mentre stava raggiungendo la sua auto, una Fiat 500 blu.
Secondo alcune testimonianze il killer era un uomo giovane e alto a volto scoperto, che dopo aver sparato riattraversò la strada e salì su una Fiat 125 blu che si dileguò nel traffico, e di cui uno dei testimoni prese la targa.
Nel periodo che seguì l'omicidio Calabresi avvennero molti attentati contro altri dipendenti dello stato impegnati contro il terrorismo.
Tali attentati ebbero uno scopo punitivo e ammonitivo al contempo, e le indagini nei confronti degli autori degli attentati risultarono particolarmente difficili[14].
Alcune ricostruzioni legano l'omicidio Calabresi alla massoneria, nella fattispecie dell'organizzazione denominata Gladio. Calabresi fu ucciso mentre conduceva un'indagine sul traffico di armi tra la Svizzera ed il Veneto.
Non a caso uno dei primi sospettati del suo omicidio fu Gianni Nardi, estremista di destra, più volte arrestato per traffico d'armi e accertato massone appartenente a Gladio, il quale morì in un sospetto incidente d'auto prima che si chiarisse la sua posizione. Inoltre i rapporti di Calabresi su quell'indagine non sono mai stati trovati.

Il 18 maggio 1972 il giornale Lotta Continua titolò:
«Ucciso Calabresi, il maggior responsabile dell'assassinio Pinelli».
Nell'articolo l'omicidio Calabresi era definito «atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia».
« L'omicidio politico non è certo l'arma decisiva per l'emancipazione delle masse dal dominio capitalista così come l'azione armata clandestina non è certo la forma decisiva della lotta di classe nella fase che attraversiamo. Ma queste considerazioni non possono assolutamente indurci a deplorare l'uccisione di Calabresi, un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia » (Comunicato uscito l'indomani dell'omicidio Calabresi su "Lotta Continua")

Le indagini Le indagini seguite all'omicidio non produssero riscontri se non dopo molti anni, grazie alla confessione di Leonardo Marino.

L'inchiesta delle Brigate Rosse
Le Brigate Rosse condussero anch'esse un'indagine sull'Omicidio Calabresi, riassunta in otto pagine ciclostilate, presenti tra il materiale trovato il 15 ottobre 1974 nel loro covo di Robbiano di Mediglia.
Parte del materiale sequestrato, inizialmente depositato presso il Nucleo Speciale Antiterrorismo dei Carabinieri di Torino, andò successivamente smarrito dopo vari passaggi (in parte forse fu distrutto nel 1992, dopo essere stato ritenuto di nessuna utilità), altre parti dei documenti sequestrati vennero tuttavia trascritte e riassunte dagli agenti che si erano occupati dell'indagine. Sembra che i documenti e le trascrizioni, per motivi misteriosi, non siano mai pervenuti o forse siano pervenuti solo parzialmente al Tribunale di Milano agli addetti alle indagini. L'oblio fu rotto dalle indagini della Commissione Stragi, che si fece consegnare il materiale superstite.
L'indagine delle Brigate Rosse confermava nell'impianto generale ciò che fu accertato solo anni dopo.

La confessione di Leonardo Marino
Sedici anni dopo i fatti, nel luglio 1988, Leonardo Marino, nel 1972 militante di Lotta Continua e in quell'epoca ormai del tutto lontano dall'associazione ebbe una crisi di coscienza. Si confessò prima con un sacerdote e, in seguito, confessò davanti ai giudici di essere stato uno dei due componenti del commando che aveva ucciso il commissario.
Marino affermò di aver guidato l'auto usata per l'omicidio, e dichiarò che a sparare al commissario era stato Ovidio Bompressi; aggiunse che i due avevano ricevuto l'ordine di compiere l'omicidio da Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani, allora leader del movimento.
Marino descrisse dettagliatamente, ma secondo diverse fonti in modo impreciso[20], i particolari dell'attentato: ad ogni modo, secondo la ricostruzione da lui fornita alla magistratura, il delitto fu accuratamente preparato, le armi furono prelevate da un deposito il giorno 14 maggio, la macchina fu rubata nella notte del 15 maggio, il delitto fu eseguito il 17 maggio.
I dettagli della confessione del Marino furono ritenuti credibili e vi furono altri riscontri alle sue parole nelle intercettazioni telefoniche allegate agli atti del processo. Pertanto, dopo una lunga e contrastata vicenda giudiziaria, la magistratura ritenne attendibile la confessione di Marino (di fatto la prova principale) e condannò Bompressi, Sofri e Pietrostefani a 22 anni di carcere con sentenza definitiva. Marino fu condannato ad una pena ridotta di 11 anni, in quanto collaboratore di giustizia.
I tempi del processo furono notevolmente lunghi: l'eccessiva durata dell'iter processuale congiunta alla riduzione di pena garantirà a Marino la prescrizione del reato e la libertà, dopo aver scontato solo una parte ridotta della pena in carcere preventivo, come da sentenza della corte d'Assise d'Appello nel 1995.

Le supposte incongruenze nelle dichiarazioni di Marino
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La confessione di Marino e l'attendibilità che gli fu riconosciuta dalla magistratura furono oggetto di critiche sia da parte della difesa di Bompressi, Pietrostefani e Sofri, sia da parte di un movimento di opinione, legato all'area intellettuale e politica cui appartenevano gli accusati dell'omicidio. Tra i suoi esponenti vi sono giornalisti come Gad Lerner e Giuliano Ferrara, tra i primi contattati dalla moglie di Sofri (secondo le intercettazioni telefoniche allora effettuate) proprio per sollevare un contrasto mediatico dopo il suo arresto [22].

Queste critiche portarono l'attenzione sulle contraddizioni presenti nelle testimonianze di Marino, che durante il processo corresse diverse volte parti delle sue deposizioni riguardanti la partecipazione di Sofri e Pietrostefani; alcune delle sue affermazioni sui loro incontri nelle prime testimonianze furono accertate come inesatte.
Particolarmente rilevante, nelle tesi di chi nega o dubita della responsabilità di Sofri, è l'iniziale affermazione della presenza di Pietrostefani nel colloquio che sarebbe avvenuto al termine di un comizio pisano tenuto da Sofri (il 13 maggio 1972), incontro svoltosi tra lo stesso Sofri, Marino e per l'appunto Pietrostefani. In questo colloquio, sollecitato da Marino, questi avrebbe dovuto ottenere conferma della provenienza dal gruppo dirigente nazionale di LC del proposito di uccidere Calabresi.
Insomma, Marino, già messo a parte da Pietrostefani del progetto omicida, temendo che possa trattarsi di un proposito non avallato dai massimi dirigenti del movimento, bensì un'azione spontanea e personale di singoli militanti, chiede a Pietrostefani di favorire un incontro con Sofri ("capo" di LC) in cui ottenere da quest'ultimo la conferma desiderata.

L'incontro avverrebbe quindi a Pisa e nell'originaria versione di Marino vedrebbe, come detto, la partecipazione di tutti e tre: lui, Pietrostefani e Sofri. Tuttavia nel corso del processo sono gli stessi (numerosi) verbali di polizia, redatti a seguito dell'attività di osservazione del comizio di LC (come all'epoca era usuale) ad escludere che in quella piazza quel giorno ci fosse anche Pietrostefani.
Difatti, quest'ultimo benché assai noto agli uffici di polizia pisani, non è mai menzionato in questi verbali, mentre lo sono militanti di minor peso, quali proprio lo stesso Marino. Vi è di più: all'epoca dei fatti narrati dal chiamante in correità, Pietrostefani è latitante per un reato minore.

La circostanza che questi, in stato di latitanza, si esponesse pubblicamente in luogo fortemente presidiato dalla polizia (e in una città dov'è molto conosciuto) appare quanto mai improbabile.
A seguito della contestazione di tutte queste circostanze, la versione di Marino cambia radicalmente escludendo la presenza di Pietrostefani, prima affermata con certezza, e limitando l'incontro solo a lui e a Sofri.

Questo aggiustamento però crea un'incongruenza ancora maggiore nella ricostruzione dei ruoli dei diversi chiamati in correo. Marino inizialmente attribuisce a Sofri il ruolo di ispiratore e mandante del progetto, a Pietrostefani quello di organizzatore, mentre lui e Bompressi si sarebbero occupati dell'esecuzione. Ebbene, la versione originaria, in cui l'incontro è a tre, è così articolata: dopo che Marino ha ottenuto da Sofri la rassicurazione politica ricercata, otterrebbe da Pietrostafani tutta una serie di indicazioni esecutive: recati a Torino, aspetta presso la sede di LC una telefonata, poi raggiungi Milano, procura un'automobile ecc. Con il venir meno di Pietrostefani non si sa più a chi attribuire queste fondamentali indicazioni. Per Marino è giocoforza attribuirle a Sofri: e con ciò il ruolo di Sofri cambia repentinamente da quello di ispiratore a quello direttore esecutivo.
Inoltre, sempre nella versione iniziale, Sofri non saprebbe del proposito di Marino di incontrarlo dopo il comizio: è Pietrostefani a farsi carico di garantire quest'incontro. Sostanzialmente avrebbe detto a Marino: "tu vieni a Pisa, finito il comizio dico io ad Adriano che vuoi parlarci ecc.".

Quando Pietrostefani scompare e Sofri diventa, secondo la nuova versione, titolare di una serie di necessarie direttive esecutive, si crea questa situazione: Sofri si reca a Pisa e non sa affatto che incontrerà uno dei prescelti esecutori del mandato, cui dovrebbe dare una serie di dettagli operativi necessari per compiere il delitto commissionatogli. È importante aggiungere questo: dopo l'incontro di Pisa, Marino si reca immediatamente a Torino, e poi da lì a Milano, esegue le direttive ricevute e dopo pochi giorni ha luogo l'omicidio del commissario Calabresi.

Quindi, questo incontro assolutamente decisivo per mandare ad effetto il proposito omicida - è qui che Marino avrebbe avuto le necessarie indicazioni esecutive, soprattutto quella di attendere una telefonata nella sede torinese di Lotta Continua - sarebbe avvenuto (Sofri non sa che Marino sarebbe stato a Pisa) in condizioni quanto mai aleatorie.
Leonardo Marino incappò in numerose altre contraddizioni su fatti e circostanze di rilievo.Solo esemplificativamente: disse che dopo il colloquio avvenuto a ridosso della Piazza del comizio pisano avrebbe immediatamente lasciato Pisa, ma sul punto fu smentito da numerosi testimoni che affermarono di aver visito Marino a casa della moglie di Sofri (residente a Pisa) molte ore dopo il comizio.

Marino descrisse una via di fuga, dopo la consumazione dell'omicidio del commissario Calabresi, diametralmente opposta a quella accertata dagli inquirenti all'epoca dei fatti; disse che il colore dell'automobile utilizzata per l'agguato era beige mentre essa era incontrovertibilmente blu; affermò di aver incontrato Sofri in anni successivi all'omicidio per metterlo a parte della sua resipiscenza morale, ricevendo dal Sofri uno sbrigativo rifiuto al confronto e velate minacce: venne accertato (circostanza da Marino inizialmente taciuta) che il reale motivo di tali incontri consisteva nella richiesta di prestiti pecuniari al Sofri, prestiti ottenuti e mai restituiti; a riprova dell'esistenza di un'asserita struttura illegale di Lc, di cui egli avrebbe fatto parte, disse di aver trascorso un periodo di clandestinità a Roma, citando come teste a conferma un sacerdote che ascoltato in giudizio disse di non sapere chi fosse Marino e di escludere di averlo mai conosciuto.

Sempre a dire del Marino una delle principali funzioni di questa asserita struttura illegale era quella di procacciare illecitamente proventi per il finanziamento del giornale Lotta Continua, tuttavia collocò i presunti "espropri" a tal fine compiuti alcuni anni prima della fondazione del predetto giornale; negli stessi anni in cui, secondo la sua ricostruzione, maturava una profonda ripulsa morale e religiosa per l'omicidio cui aveva preso parte, Marino risulta essere coinvolto in alcune rapine a mano armata.

Singolari sono invece alcune conferme delle sue affermazioni: invitato a descrivere l'appartamento milanese utilizzato come base per la preparazione del delitto, Marino ne diede una descrizione particolareggiata che trovò pieno riscontro nel successivo sopralluogo investigativo. Risultò poi che lo stato dei luoghi, esattamente descritto da Marino, era quello risultante a seguito di una ristrutturazione dell'immobile avvenuta molti anni dopo il delitto (e l'asserito soggiorno del Marino in detto appartamento).
Fu accertato che, prima della data della confessione ufficiale, il pentito ebbe colloqui riservati, ripetuti in 17 giorni e non verbalizzati nella caserma dei carabinieri di Sarzana, con il colonnello Umberto Bonaventura.

Fu inoltre accertato in sede processuale che Marino, fino al luglio 1988 indebitato per una somma sicuramente superiore ai 30 milioni di lire del tempo, ricevette, precedentemente alla confessione ufficiale, somme di denaro di cui non seppe giustificare la provenienza, tali da permettergli di saldare i debiti[23].

I tredici anni di iter giudiziario e la condanna definitiva degli esponenti di LC
Furono celebrati complessivamente 7 processi, più richieste di revisione delle sentenze e altri ricorsi che durarono in tutto ben 13 anni, dal 1990 al 2003.

1 processo: il 2 maggio 1990 la Corte d'Assise di Milano condannò a 22 anni di reclusione Sofri, Pietrostefani e Bompressi e a 11 anni Leonardo Marino (pena ridotta rispetto agli altri perché beneficiario di attenuanti come collaboratore di giustizia).
2 processo: il 12 luglio 1991 la Corte d'Assise d'appello confermò le condanne.
3 processo: il 23 ottobre 1992 la Corte di Cassazione annullò la sentenza con rinvio alla corte d'appello.
4 processo: il 21 dicembre 1993 si concluse il nuovo processo d'appello con l'assoluzione di tutti gli imputati.
5 processo: il 27 ottobre 1994 la Cassazione annullò la sentenza per incongruenza delle motivazioni e ordinò un nuovo processo.
6 processo: il 11 novembre 1995 vennero confermate le condanne del primo processo, eccetto per Leonardo Marino, per il quale il reato venne dichiarato prescritto (il tempo passato tra il primo processo, in cui era stato condannato a 11 anni di reclusione, e l'ultimo processo, fece raggiungere i tempi della prescrizione).
7 processo: il 22 gennaio 1997 la Cassazione confermò in via definitiva la condanna di Sofri, Bompressi e Pietrostefani - ad oggi unico dei tre ad essere latitante - a 22 anni di reclusione. Due giorni dopo Sofri e Bompressi entrarono in carcere a Pisa.
Successivamente la Magistratura si occupò ancora del caso per la richiesta di revisione del processo, che venne dichiarata inammissibile prima a Milano, poi a Brescia, infine a Venezia nel 2000.

Furono inoltre condotti ulteriori appelli:

21 luglio 1997: venne presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo.
18 marzo 1998: la corte d'appello di Milano respinse la richiesta di revisione del processo basata su nuove prove.
6 ottobre 1998: la Cassazione annullò l'ordinanza della Corte d'appello di Milano rinviando alla corte d'appello di Brescia la decisione sulla revisione.
1 marzo 1999: la corte d'appello di Brescia respinse la richiesta di revisione del processo basata su nuove prove.
27 maggio 1999: la Cassazione annullò l'ordinanza delle corte d'appello di Brescia rinviando alla Corte d'appello di Venezia la decisione sulla revisione.
24 agosto 1999: la corte d'appello di Venezia accolse la richiesta di revisione.
24 gennaio 2000: la corte d'appello di Venezia respinse la richiesta di revisione e confermò le condanne.
4 marzo 2003: alla Corte di Strasburgo si tenne l'udienza sull'accoglibilità del ricorso di Sofri, Pietrostefani e Bompressi.
10 giugno 2003: la Corte di Strasburgo dichiarò irricevibile la richiesta degli imputati.
La grazia all'esecutore materiale e le richieste fatte per Sofri e Pietrostefani [modifica]
Un rilevante movimento di opinione pubblica principalmente di sinistra si è nel tempo radunato intorno al caso Calabresi, portando per lungo tempo al centro del dibattito politico l'opportunità di concedere o meno la grazia a Giorgio Pietrostefani, Adriano Sofri e Ovidio Bompressi.

Già nel 1997 fu richiesta la grazia al Presidente Oscar Luigi Scalfaro per i tre, che Scalfaro rifiutò con una lettera aperta ai presidenti delle Camere, portando le seguenti motivazioni: « Qualsiasi provvedimento di grazia destinato a più persone sulla base di criteri predeterminati, costituirebbe di fatto un indulto improprio, invadendo illecitamente la competenza che la costituzione riserva al parlamento. [...] La grazia, qualora applicata a breve distanza dalla sentenza definitiva di condanna, assumerebbe oggettivamente il significato di una valutazione di merito opposta a quella del magistrato, configurando un ulteriore grado di giudizio che non esiste nell'ordinamento e determinando un evidente pericolo di conflitto di fatto tra poteri. [...] Dunque la via per superare queste dolorose e sofferte vicende della nostra storia può essere trovata, ma certo richiede una visione unitaria di quella realtà, una volontà politica determinata e capace di raccogliere il consenso indispensabile. »


L'ultima frase fu interpretata come un invito a esaminare il tema dell'indulto.
Il 31 maggio 2006 il neoeletto Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano firmò il decreto di concessione della grazia a Ovidio Bompressi che ne aveva fatto richiesta espressamente, su proposta e parere favorevole del ministro della Giustizia Clemente Mastella.
Tale provvedimento s'innestava su un'istruttoria iniziata già col predecessore di Napolitano, Ciampi.
Ciampi, favorevole alla concessione della grazia per Ovidio Bompressi, era stato durante il suo mandato bloccato dal Guardasigilli Roberto Castelli, ed aveva in quell'occasione sollevato un conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato presso la Corte Costituzionale.
La Consulta, pochi giorni prima della scadenza del mandato di Ciampi si espresse attribuendo il potere di grazia alla esclusiva discrezione del Presidente della Repubblica, a prescindere da un eventuale parere negativo del Ministro della Giustizia competente.

Nessun provvedimento di grazia è stato portato avanti nelle sedi competenti per Adriano Sofri (che non lo ha mai chiesto) e Giorgio Pietrostefani, i due fondatori di Lotta Continua.In una intervista al Corriere della Sera Adriano Sofri si è assunto comunque la corresponsabilità morale dell'omicidio .